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Siddhartha Mukherjee L’imperatore del male. Una biografia del cancro

11/07/2017

Intervista di Mara Accettura pubblicata il 28 agosto su D, la Repubblica delle donne, all’ oncologo americano della Columbia University che ha vinto il Pulitzer 2011

Luccicano nella capsula di Petri come stelle nel buio. Alcune verdi,  altre viola, formano costellazioni di una terrificante bellezza. Sono  cellule cancerose. «Leucemia. Le abbiamo prelevate da un topo in cui  abbiamo impiantato un gene umano di leucemia. Ma la cosa carina è  che, per seguirne i movimenti, gli abbiamo messo dentro anche un gene  di medusa. È per questo che brillano così».

Camicia aperta bianca a quadretti rossi, stivali, un ciuffo di  capelli corvini che gli ricade continuamente sulla fronte Siddhartha  Mukherjee, nato a Delhi 40 anni fa, studi a Oxford, una moglie  artista (Sarah Sze), non sfigurerebbe affatto come rubacuori in un  epica bollywoodiana. Invece è un oncologo che passa la maggior parte  delle sue giornate a studiare cellule staminali tra i microscopi e i  frigoriferi dei laboratori della Columbia University di New York.

Un oncologo con un grande talento letterario: la sua monumentale  biografia sul cancro, risultato di sei anni e mezzo di ricerche,
L’imperatore del male (in uscita con Neri Pozza l’1 settembre) ha  vinto il Pulitzer. È un libro così esagerato (600 pagine l’edizione  americana, ma in prime bozze erano 1800) che un blogger gli ha  educatamente suggerito di fare anche un bignamino. Assolutamente no!
La forza di questo libro, il primo nel suo genere, sta nella  narrazione: la capacità di tenere insieme in modo avvincente 4000  anni di storia della malattia. Mukherjee dice che la motivazione  principale è venuta dal rapporto con i pazienti, in particolare una  donna, Germaine, con un tumore all’addome. Rispondeva alle cure per  un po’, poi il cancro tornava. Era come giocare a scacchi, “un gioco  morboso, ipnotico – un gioco che si era appropriato della sua vita.
Riusciva a schivare un colpo per poi essere presa in pieno da un  altro”. «A un certo punto mi disse. “Voglio continuare a curarmi ma  per favore mi spieghi contro cosa esattamente sto combattendo”. È  stata una frase che mi ha mortificato e commosso, nemmeno io sapevo  rispondere in pieno. Non potevo neanche indicarle un libro che  l’avrebbe aiutata a comprendere. L’ho scritto semplicemente perché  non c’era».
Medicina e letteratura non sono così lontane come si crede. «In  effetti la medicina è storytelling», dice. «Curare una persona  comincia con un atto sciamanico, il dottore che chiede al paziente di  raccontargli la sua storia, il paziente che la spacchetta, il medico  che cerca di spiegare. Senza quel racconto, quell’apertura  dell’anima,  non c’è vera cura».
L’imperatore del male è un grandissimo affresco sociale, ambientato  soprattutto negli Usa, fatto di storie più piccole, diagnosi,  pazienti, scienziati, cure. Speranze, vittorie e sconfitte: un  mosaico complesso per catturare le diverse facce della malattia. Deve  essere così, perché «quello che noi chiamiamo cancro è un termine  ombrello per malattie che si comportano in modo diversissimo. Persino  due tumori al seno non si somigliano affatto, perché ogni genoma del  cancro è unico, e tuttavia c’è una grammatica comune. L’analogia  migliore è quella umana: ci sono caratteri fondamentali che  connettono me a lei e la sua psiche alla mia e tuttavia rimaniamo  sostanzialmente molto diversi».
La cosa certa è che durante la vita ognuno di noi ne fa  un’esperienza, diretta o attraverso qualcuno che amiamo. Qualche mese  fa il magazine di The Guardian, anticipando un brano del libro, ci ha  fatto una cover piuttosto inquietante. Era una foto ambientata in un  supermercato affollato dove tutti, dalle cassiere ai clienti erano  calvi, come reduci da una chemio. Il titolo era Cancer: The New  Normal? Quelle teste pelate di giovani, vecchi e bambini non  alludevano alla possibilità di contrarlo o meno durante la vita. Il  punto era sul “quando”. Un’inevitabilità raggelante no?
Le statistiche sembrano corroborare questa affermazione: i casi di  cancro nel mondo sono in aumento. Negli Usa una donna su tre e un  uomo su due, a un certo punto della loro vita, scopriranno di averlo.

Questa previsione, a prima vista inquietante, si spiega soprattutto  con l’allungamento della vita. «Il cancro è connesso  all’invecchiamento, alle mutazioni che accumuliamo nel tempo nei  nostri corpi. Ma anche all’aumento di carginogeni nell’ambiente e al  fatto che abbiamo eliminato molte altre malattie killer, come il  tifo, il vaiolo…», dice Mukherjee. Quindi «È alquanto possibile che  questa malattia diventi normale, e che il destino intrinseco di tutti  sarà caracollare verso una fine maligna».
La storia della malattia è raccontata attraverso figure chiave: c’è  la Regina persiana Atossa, protagonista della prima mastectomia che  si ricordi, fatta da uno schiavo nel 500 BC, il patologo Sidney  Farber che, negli anni 40, mise a punto la prima chemioterapia per la  leucemia infantile, e Mary Lasker, l’instancabile fundraiser e  filantropa che, chiamando in causa Nixon, lanciò la prima guerra  nazionale contro la malattia. C’è  George Papanicolau, a cui dobbiamo  il Pap test e Bert Vogelstein, che ha studiato per primo le mutazioni  genetiche, fino all’attuale Atlante del Genoma del Cancro, la mappa  futura di tutte le alterazioni genetiche delle forme più comuni della  malattia.
Ma sono le storie dei pazienti come Barbara Bradfield, il primo  tumore al seno in stadio avanzato curato con l’Herceptin da Danny  Slamon negli anni 90, viva ancora oggi, a commuovere di più. Le loro  speranze sono le nostre. «Mentre scrivevo il libro non sapevo se una  delle mie pazienti, Carla, sarebbe sopravvissuta. Quando l’ho finito  ero felicissimo che fosse viva, ovviamente, ma non ho voluto  concluderlo con il suo delizioso trionfo, bensì con la  storia di  Germaine, che non c’è più e che ha motivato la mia vita nella ricerca».
Il modo in cui abbiamo “conversato” con questa malattia durante i  secoli riesce a dirci molte cose su di noi. Negli anni 50 avevamo una  grandissima paura e la parola cancro non si poteva nemmeno  menzionare: Fanny Rosenow chiamò il New York Times per metter un  annuncio su un gruppo di supporto per pazienti sopravvissute al  tumore al seno. Le fu risposto che quelle ultime due parole non era  proprio possibile pubblicarle. Perché non scrivere invece di  generiche “malattie della cavità toracica?”. Nei 70 i progetti nello  spazio inaugurarono un periodo di delirante ottimismo: il cancro  poteva essere conquistato come la luna! Evviva! Era solo una  questione di budget! Una delle cose che mi ha colpito di più è che la  lotta contro il cancro negli anni 80 deve moltissimo agli attivisti  dell’Aids. Con lobby e campagne quella minoranza rumorosissima ha  fatto uscire una parola impronunciabile dalla clandestinità e ha dato  voce ai diritti dei pazienti, facendo sì che per la prima volta cure  sperimentali fossero disponibili per un vasto numero di loro.

Molto interessante è anche un capitolo dedicato alle statistiche,  dove spesso, nella raccolta dei dati, “la nostra speranza  interferisce con la comprensione della verità”. «Prendiamo quelle  sulla sopravvivenza nel tempo. Se scopri un tumore molto presto con  un test sembrerà che, in virtù di quel test, la sopravvivenza sia  maggiore, ma questo non ha nulla a che vedere con la sopravvivenza  reale. Nel libro faccio l’esempio di due gemelle: Hope e Prudence che  sviluppano la stessa forma di tumore allo stesso momento: nel 1990.
Hope fa un test e lo scopre nel 1995, sopravvive 5 anni, si riammala  e muore nel 2000. Prudence non fa nessun test, si accorge di essere  malata nel 1999 e muore nel 2000. Chi ha vissuto più a lungo?».
Detto questo, e rimossi tutti i pregiudizi, negli Usa, da dieci anni  la mortalità per tutti i tipi di cancro è caduta al ritmo di 1-2 per  cento all’anno.
Ci ha fatto piacere trovare delle pagine dedicate agli italiani  Umberto Veronesi e Gianni Bonadonna come ottimo esempio di  collaborazione tra chirurgia e chemioterapia in un momento storico,  gli anni 70, in cui queste due branche si facevano la guerra.
Ricercatori italiani ce ne sono tanti anche qui all’istituto e  Mukherjee ci tiene a dire che il piano di sotto lo chiamano “il piano  di Milano”, perché è al 100 per 100 italiano, e il grande capo è  Riccardo Dalla Favera. In questo periodo la sua ricerca si concentra sui microambienti che  rendono possibile lo sviluppo della malattia. «Le cellule non vivono  in isolamento ma si creano delle case, dei piccoli santuari.  Comunicano con le cellule dei vasi sanguigni, con quelle dei muscoli.
Se cambi questo microambiente cambi anche il comportamento del  cancro. Stiamo cercando di creare delle medicine che rendano  inospitali questi santuari. Il vantaggio è che le loro cellule sono  soggette a meno alterazioni di quelle cancerogene e quindi il  comportamento è più prevedibile».
Se biografia significa storia di una vita, il cancro raccontato da  Mukherjee è l’essere vivente più resiliente ed elusivo che ci sia, un  furbissimo Osama Bin Laden con le aspirazioni espansionistiche di un  Alessandro Magno, braccato nei secoli da generazioni di scienziati.
Un terrorista che appare all’improvviso e quando meno lo si aspetta,  semina panico e distruzione, scompare in improbabili nascondigli,  riappare a distanza di tempo in un luogo diverso, viene rimesso in  fuga da nuove strategie.
Il terrorista vero ha fatto la fine che sappiamo. Questo, è ancora  tutto da vedere. «Il cancro è “embedded” nei nostri corpi, cucito nel  genoma. Una macchina antichissima costruita per sopravvivere. Questo  è un fatto. La grande ironia è che sono gli stessi geni che ci  permettono di far crescere gli embrioni, le mani, le facce, se li  muti e li attivi in modo inappropriato – e qui entra in gioco il  fattore ambientale, vedi il tabacco – a creare anche il cancro».Da un certo punto di vista “l’imperatore del male”  è la nemesi di  una società che aspira alla eterna giovinezza e per cui la morte è un  mero optional. I nostri desideri somigliano a quelli delle  fantastiche cellule colorate nella capsula di Petri, coi geni che  dialogano con altri geni producendo una musica dal ritmo perfetto e  letale. Quelle cellule che crescono a dismisura per rimanere
immortali sono una versione più perfetta di noi stessi. Non è  ironico? Il cancro è il nostro doppelganger, quel lato ombra che ci  ricorda il nostro peccato di hubris.
Forse i nostri goal dovrebbero essere più modesti. Mukherjee rimette  a posto le cellule nel frigorifero. Le sue previsioni hanno i piedi  per terra.
«Alcuni cancri saranno curabili, altri diventeranno cronici, e questo  traguardo è in sé importantissimo. Per altri ci saranno solo cure  palliative. Ma l’idea che potremo sradicarlo dal corpo così come  abbiamo fatto per la poliomelite è pura fantasia. Amo quell’aforisma  di Richard Doll che dice: “la morte in vecchiaia è inevitabile, la  morte prima della vecchiaia no”. È su questo che bisogna lavorare.
Prolungare le vita, non eliminare la morte: è proprio ridefinendo il  concetto di vittoria che possiamo vincere la guerra contro il cancro».

 

 

Libro vincitore del Premio Pulitzer 2011.

Tra i cento migliori libri del 2011 scelti dal New York Times.

L’epica lotta contro il cancro. Una guerra millenaria fatta di incessanti battaglie, piccole vittorie e grandi sconfitte,  medici ed eroi, geni della ricerca e gente comune, illusioni e speranze, certezze e millanterie.

«Un libro davvero di pregio, affascinante – nonostante la complessità della materia -, da cui traspare l’impegno, la dedizione e la passione di chi per lungo tempo l’ha maturato, curato, seguito in tutte le sue fasi di realizzazione».
Umberto Veronesi

«Una biografia del grande nemico che ci assedia da 4500 anni… una lotta millenaria, dove ogni conquista è stata la faticosa risposta dell’uomo alle sconfitte precedenti».
Giuliano Aluffi, Il Venerdì di Repubblica

«La forza di questo libro, il primo nel suo genere, sta nella narrazione: la capacità di tenere insieme in modo avvincente 4 mila anni di storia della malattia».
Mara Accettura, D di Repubblica

«L’autorevole e ambiziosa storia del cancro di Mukherjee è il racconto epico di un autore che sembra mosso da un’assoluta necessità, come un giovane prete che scriva la biografia del Maligno».
The New York Times

«Non sono molti i libri per il grande pubblico che sappiano offrire un’immagine della scienza e della tecnologia moderna con la stessa intelligenza, chiarezza e partecipazione».
The New Yorker

«Ogni tanto arriva sulla scena letteraria uno scrittore che ci aiuta a comprendere sia le complessità sia la portata umana di una disciplina scientifica. Autori come Lewis Thomas, Sherwin Nuland e Oliver Sacks. A loro si aggiunge ora Siddharta Mukherjee».
Elle